VERONA NELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE - Iniziativa con Luciana Castellina


Alcune foto dell'Assemblea pubblica di Venerdi 18 Marzo in Sala Tommasoli

Venerdì 18 Marzo, in Sala Tommasoli, si è svolta l'Assemblea pubblica "Verona nella strategia della tensione" in cui è intervenuta Luciana Castellina. 

L'iniziativa, molto partecipata, è stata l'occasione per presentare il libro "Parole per Piazza Fontana. Biennio rosso, strage nera" con gli autori Antonio Damiani e Maurizio Framba. Ha introdotto e moderato l'incontro Giorgio Gabanizza di Sinistra Italiana Verona. 

La serata è stata impreziosita da numerose e qualificate testimonianze di persone e realtà associative veronesi: anche per questo è stata un'utilissima occasione di confronto che ha toccato numerosi temi, dalle violenze neofasciste al ruolo americano nella strategia della tensione, fino alla grande questione della Pace, sempre presente in ogni discorso. La posizione di Sinistra Italiana su questo punto è stata unanimemente considerata giusta e necessaria, in un mondo che oggi procede verso l'orrore della guerra. 

Di seguito riportiamo, in forma scritta, due dei tanti interventi: quello del Prof. Lorenzo Bernini e della giornalista Jessica Cugini. 


Intervento di Lorenzo Bernini

PACE, PACE, PACE
La strategia della tensione, la guerra in Ucraina e noi

Questo il testo del mio intervento alla presentazione del libro 'Parole per Piazza Fontana' a cura di Antonio Damiani e Maurizio Framba, con prefazione di Luciana Castellina, organizzata da Sinistra Italiana presso il centro civico Nicola Tommasoli di Verona il 18 marzo 2022.

Innanzitutto, permettetemi di ringraziare i curatori di questo libro, Antonio Damiani e Maurizio Framba, Luciana Castellina che del libro ha scritto la prefazione, e infine Sinistra Italiana che ha organizzato questa presentazione. Li ringrazio e le ringrazio perché si tratta di un libro importante, che ci permette non soltanto di fare memoria su una pagina tragica della storia italiana e mondiale, ma anche di interrogarci sul senso di questa memoria nel presente – in un presente che è un altro momento tragico della storia mondiale. Quale senso possiamo dunque trovare oggi in questa memoria?
Ricordare la strategia della tensione ci obbliga, per iniziare, a ripensare due assunti storiografici sulla guerra fredda. Innanzitutto: la guerra fredda solo fredda non è stata, perché la strage di Piazza Fontana è stata un atto di guerra vera e propria che il 12 dicembre 1969 ha fatto 88 feriti, e 17 morti – anzi 18 contando Pinelli. Un atto di guerra vera e propria, combattuto non sul suolo sovietico né su quello statunitense, ma su quello italiano.
Secondariamente, ricordare oggi Piazza Fontana ci induce a pensare che la guerra fredda non è finita nel 1991, con la caduta dell’URSS. Semmai dopo il 1991 la guerra fredda si è raffreddata per circa tre decenni, per poi scaldarsi ancora. Oggi assistiamo a una guerra calda, caldissima, rovente, che senza dubbio è un’ingiustificabile aggressione della Russia ai danni dell’Ucraina. Ma che altrettanto senza dubbio si inserisce in un più ampio conflitto di potenza tra Russia e Stati Uniti/NATO che ha origini lontane e non è mai venuto meno. Sono venute meno le cause ideologiche della guerra fredda, ma non è venuta meno la logica di potenza, la logica imperialista che, assieme all’ideologia, della guerra fredda è stata carburante. Di questa logica, la Russia non è certo l’unica attrice. E anche questa sta diventando una guerra per procura, combattuta dagli Stati Uniti, dalla NATO dall’Europa sul territorio dell’Ucraina, con i militari e i civili dell’Ucraina. Con i morti, troppi morti, dell'Ucraina.
A che fine ricordare quindi oggi quella strage, quell’atto di guerra terroristica effettuato in Italia da Ordine Nuovo, ma anche dai servizi segreti italiani e da quelli statunitensi, orchestrato come buona parte della strategia della tensione dal comando Nato di Verona, il comando FTASE (Forze Terrestri Alleate per il Sud Europa) di Palazzo Carli? Che cosa farcene oggi di questa memoria? Due cose, almeno.
La prima è renderci conto che il problema del neofascismo è anche e innanzitutto il problema delle coperture politiche che ai gruppi neofascisti vengono offerte, delle connivenze tra gruppi neofascisti, partiti di destra e partiti e forze liberali. Questo è vero ora come lo era allora, e questo è vero ora come allora soprattutto in questa città, che dai tempi della repubblica di Salò a quelli del comando FTASE fino a oggi resta il centro del neofascismo italiano e il laboratorio delle sue trasformazioni. Bene ha fatto quindi Nicola Fratoianni, di fronte all’aumento delle aggressioni di matrice fascista in città, a depositare (lo scorso 25 febbraio) un’interrogazione parlamentare che non solo chiede alla Ministra degli Interni la piena applicazione della legge Scelba e della legge Mancino contro il fascismo, ma che inoltre denuncia il silenzio-assenso dell’amministrazione comunale veronese sulle violenze di Casa Pound e di Blocco studentesco.
La seconda cosa che possiamo farcene, della memoria di piazza Fontana e della strategia della tensione, conduce a una riflessione che lega fascismo e liberaldemocrazia più di quanto vorremmo. Fino a dove possiamo estendere il concetto di fascismo? Quali regimi, quali partiti, quali fenomeni possiamo comprendere sotto questa categoria? Gli storici rigorosi risponderebbero che fascismi sono stati soltanto precisi regimi storici del Novecento, come quelli di Hitler, Mussolini, Franco... Ma illustri voci del recente passato insegnano invece che la categoria di fascismo può essere utilizzata anche in senso metastorico, per indicare una tendenza della modernità che può manifestarsi anche dopo il fascismo storico, assumendo configurazioni neofasciste, non solo contro le liberaldemocrazie, ma anche – e qui sta lo scandalo – al loro interno.
Ad esempio, in una celebre conferenza del 1995, Umberto Eco mise in guardia contro quello che chiamò «fascismo eterno» o «Ur-Fascismo», che definì come una costellazione di «archetipi» politici che restano sotto traccia anche nelle liberaldemocrazie. Questi archetipi, secondo Eco, sono: il culto della tradizione, l’esaltazione del sangue e della terra, il rifiuto della critica, del disaccordo e della cultura, il sospetto verso gli intellettuali, l’appello alla frustrazione delle classi medie, la concezione del popolo come un’«entità monolitica che esprime una volontà comune». E poi «la paura della differenza»: il razzismo, la misoginia, l’abilismo, l’omolesbobitransfobia – diremmo oggi. Dobbiamo imparare a riconoscerli, questi archetipi, da qualsiasi parte vengano: nel regime di Putin in Russia, e nell'ideologia da crociata omolesbobitransfobica del patriarca Kirill, certo, ma anche in Forza Nuova e Casa Pound, e poi nella Lega e Fratelli d’Italia. Anche in chi, dal centro e addirittura dalla sinistra, si è opposto negli scorsi mesi al ddl Zan esprimendo posizioni discriminatorie. E infine nelle maggioranze comunali veronesi, che nel 1995 hanno approvato delle vergognose mozioni omolesbobitransfobiche, che mai fino ad ora sono state abrogate.
Tra gli archetipi fascisti, Eco dimentica però di ricordarne uno che la nostra Costituzione invece ricorda bene, e che ripudia con nettezza: l’uso della violenza come strumento politico, nella politica interna come nella politica internazionale. Anche questo deve essere allora il nostro impegno antifascista, nel ricordo di piazza Fontana: riconoscere e contrastare il fascismo nel suo significato esteso come uso della guerra e delle politiche di potenza che sono politiche di guerra. Contrastare la violenza, dunque. Contrastare la potenza, da qualunque parte vengano: della Russia o dagli Stati Uniti, dalla Nato, dalla Cina o dall’Europa. Contrastare i nazionalismi, contrastare le armi, sempre. Quelle armi che invece il Parlamento italiano ha votato a larghissima maggioranza di inviare in Ucraina. Quelle armi per cui invece il Parlamento italiano ha votato a larghissima maggioranza un finanziamento di 38 miliardi di euro in un anno (104 milioni di euro al giorno). Bene ha fatto, di nuovo, Sinistra italiana a opporsi a entrambe queste decisioni: nella scena internazionale, l’antidoto al fascismo non può essere il riarmo. Può essere soltanto l’internazionalismo, un internazionalismo pacifista.
Un’ultima lezione possiamo infine trarre dalla memoria di Piazza Fontana: come ricorda la storica Vanessa Roghi nell’intervista contenuta in 'Parole per Piazza Fontana', la strategia della tensione fallì per la risposta che le piazze italiane seppero dare alle stragi. Furono i funerali delle vittime della strage del 15 dicembre 1969, diventati una grande manifestazione popolare, a impedire che la strategia della tensione si risolvesse con «un golpe sul modello greco». Questo afferma Vanessa Roghi. E, di nuovo, quanto valeva allora, vale anche ora. La democrazia è nelle nostre mani: contro i fascismi di tutti tipi, contro i razzismi, contro i maschilismi, contro le discriminazioni, contro le guerre, contro le armi, contro l’imperialismo capitalista, dobbiamo farci sentire. Pace, pace, pace.



Intervento di Jessica Cugini

Parole per Piazza Fontana 

Per chi nasce negli anni ’70, in una famiglia di comunisti come la mia, Piazza Fontana è, prima che la storia di una strage e di una vicenda giudiziaria infinita, una canzone, che si canta in macchina quando ancora le autoradio non esistono, e che comincia con “Quella sera a Milano era caldo, ma che caldo, che caldo faceva. Brigadiere apra un po’ la finestra. Una spinta e Pinelli va giù”.

Questo per me è il primo ricordo, legato più alla “Ballata dell’anarchico Pinelli” che alla strage e alle indagini successive. Un ricordo legato a una canzone che cantavo da bambina, senza capire esattamente il significato di tutte le parole, ma con la consapevolezza che raccontava di qualcuno che aveva spinto un uomo giù da una finestra…

Solo da adulta scoprirò che della stessa canzone esistono versioni diverse e che tutte hanno però un passaggio: “anarchia non vuol dire bombe, ma giustizia nella libertà”.. che sembra riprendere una frase della lettera che Pinelli scrisse a un giovane anarchico di Bolzano, Paolo Faccioli, in prigione perché accusato dei due attentati dinamitardi avvenuti a Milano il 25 aprile del 1969, quello al padiglione Fiat della Fiera campionaria e all’Ufficio cambi della stazione centrale di Milano.

Una lettera che Pinelli scrive senza ancora sapere della strage, nel pomeriggio di quel 12 dicembre 1969 in cui Calabresi gli chiederà di seguirlo sul Benelli in questura… una lettera che recita: “l’anarchismo non è non violenza, la rigettiamo, ma non vogliamo subirla”.

Un nome, questo di Paolo Faccioli, che conoscerò meglio grazie soprattutto a due libri, “La Bomba” di Deaglio e “Prima di Piazza Fontana. La prova generale” di Paolo Morando, presentato qui a Verona a dicembre, grazie alla Cgil, insieme al libro di stasera. Presentazione che, per chi era presente, è stata la possibilità di ascoltare dal vivo la testimonianza di Fortunato Zinni che si ritrova anche in “Parole per Piazza Fontana”.

Ogni volta che si ha la fortuna di trovarsi davanti a un testimone di un pezzo importante della storia del nostro Paese, ci si domanda cosa avverrà quando chi c’era, chi ricorda e racconta, non ci sarà più. Quando, gli stessi famigliari di Piazza Fontana, che dopo le sentenze che non condannano Freda e Ventura (perché due volte per la stessa imputazione non si può essere giudicati) decidono di trasformarsi da famigliari delle vittime a testimoni di una strage, non ci saranno più, cosa avverrà?

La risposta l’ho trovata nel libro, nelle parole di Vanessa Roghi e nell’oggi. In quel che accade e non si può comprendere, non solo se non si ha memoria, ma se non si coltiva un metodo di pensiero, un metodo che abitui a leggere gli eventi odierni con la prospettiva temporale di un lungo periodo, che ha radici nel passato.

Forse, per noi che siamo nate e nati dopo quel ’69, cresciuti cantando canzoni di cui non capivamo il significato, ma che contribuivano a formare il nostro pensiero, è più facile delle e dei giovani di oggi. Ma questo vuol dire, come scrive Luciana Castellina nella prefazione, che occorre che anche le giovani generazioni si approprino della memoria come chiave di lettura per capire il presente, per orientare l’oggi e soprattutto, alla luce dell’oggi, il domani…

Perché ricordare serve per accendere la vigilanza, per riconoscere quelle che sono le stesse parole d’ordine di ieri, che ritroviamo oggi, qui, a Verona. Parole, slogan, simboli fascisti. Ne siamo circondati, ce lo ha ricordato il libro di Paolo Berizzi, “È gradita la camicia nera”, che è stato presentato con Landini lo scorso gennaio, sempre grazie alla Cgil.

Con la consapevolezza e la sensazione, è vero, di rapportarci, come scrivono gli autori del libro, sempre “impreparati alla storia”, ma accompagnate/i da un’altra consapevolezza: quella della necessità di colmare il più possibile questa impreparazione. Perché il sapere è il solo metodo che conosciamo per fare politica. Perché è questo che ci hanno insegnato quando abbiamo iniziato a militare da ragazze e ragazzi. Ci hanno detto che dovevamo studiare, meglio, che dovevamo istruirci, oltre che agitarci e organizzarci.

Ed è solo grazie a questo sapere che abbiamo la chiave di lettura necessaria per capire da dove parte la macchinazione che porta a comprendere non solo la strage di Piazza Fontana, ma l’oggi. A  ricostruire non solo un puzzle intricato di indagini giudiziarie, ma il filo che tiene insieme nomi che si rincorrono in tempi storici differenti.

Mi fermo su uno, perché credo sia eloquente di come le cose funzionino in questo Paese.

Alla fine di questa estate, sono stata a Ventotene, in un Viaggio della Memoria organizzato da Istoreco, l’Istituto di storia della Resistenza di Reggio Emilia. Lì ho “trovato” l’alto funzionario fascista Marcello Guida, direttore delle colonie di confino di Ponza e Ventotene, dove era stato confinato Pertini. Socialista al confino. Lo stesso Pertini che, da presidente della Camera, all’indomani della morte di Pinelli, si rifiuterà di stringergli la mano al suo arrivo alla stazione di Milano, trovandoselo davanti, questore della città.

Lo stesso Pertini che ricorda bene come gli anarchici venivano trattati da Guida al confino. A loro, raccontano le memorie degli oppositori al regime, erano riservate punizioni di particolare durezza, tra castighi e olio di ricino. Non è un caso se gli anarchici, all’indomani del 25 luglio del ’43, dopo il crollo del regime e la liberazione dei confinati, verranno trattenuti sull’isola. Pertini, insieme a Terracini, si esporrà per loro, soprattutto quando al posto della liberazione per loro ci sarà l’internamento in uno dei peggiori campi di concentramento italiani, a Renicci di Anghiari. Pertini ricorda, come noi dovremmo ricordare oggi che l’amnistia di tutto questo, a Guida e camerati, arriva da Togliatti.

Guida è l’uomo che ordinò nel ’68, da questore di Torino, e nel ’69 di Milano, le cariche sui cortei di studenti e operai del biennio caldo. È colui che in quell’anno di bombe (dal 3 gennaio al 12 dicembre di Piazza Fontana saranno 145, una ogni tre giorni), la sera stessa dell’esplosione di Piazza Fontana, organizzerà la grande retata degli anarchici e diffonderà per primo la voce che la mente della strage è Feltrinelli, che (lo ricordano Deaglio e Moraldo) da anni è seguito con tenacia dall’Ufficio affari riservati. D’altra parte tutte le indagini sulle bombe del 25 aprile sono segnate dalla volontà di incolpare gli anarchici.

Guida è colui che la notte del 16 dicembre, la notte della morte di Pinelli, davanti a Camilla Cederna, Giampaolo Pansa e Corrado Stajano, pronuncerà quella frase infame per cui Licia Rognini, vedova Pinelli, lo querelerà. Lo racconta nel suo libro “Una storia soltanto mia”, scritto con il giornalista Piero Scaramucci, ideatore del progetto politico/editoriale di Radiopopolare, edito con Mondadori e andato al macero nella sua prima edizione che troverà luce con Feltrinelli. Libro che oggi è un bellissimo graphic novel di Beccogiallo, “Volo senza un grido”, che dovremmo regalare alle/ai più giovani… E lo racconta anche con lo storico Marco Severini, nel libro “Licia. La storia di della prima donna italiana che denunciò un questore”, perché Licia Rognini è la vedova Pinelli, ma è anche e soprattutto la prima donna che denuncia un questore, Guida, per aver detto che “Pinelli era fortemente indiziato di concorso di strage, il suo alibi era crollato. E, coerente con i suoi princìpi, quando ha visto che la legge lo aveva preso, si è tolto la vita…”

Una frase per cui non pagherà mai, anzi sarà assolto perché il fatto non sussiste. Così come non pagherà la falsità di un’altra affermazione, quella in cui sostenne che il fermo di Pinelli, che con i tre giorni va oltre il periodo previsto dalla legge, era stato autorizzato da un magistrato…

Non solo non pagherà, ma Guida farà carriera. Come tanti protagonisti di questa vicenda sarà promosso: come i cinque dentro la stanza della questura da cui cadde Pinelli, Guida finirà la sua carriera da ispettore generale in un ministero romano… Un fare che sappiamo è rimasto nel tempo questo delle promozioni di chi si è trovato invischiato in pezzi determinanti della storia del nostro Paese… l’abbiamo visto anche con il G8 di Genova..

Non ci stupisce neanche che le 5 bombe del 12 dicembre del ‘69 (Piazza Fontana e Piazza della Scala a Milano, e le tre romane alla Banca Nazionale del Lavoro in via San Basilio, al museo del Risorgimento in piazza Venezia e all’Altare della Patria) scoppino proprio mentre in parlamento si deve votare il disarmo della polizia durante le manifestazioni politiche e sindacali, richiesta che arriva dopo che durante gli scioperi di Avola e Battipaglia (il primo per il rinnovo del contratto dei braccianti, il secondo per protesta contro la chiusura delle fabbriche) muoiono, per mano delle forze dell’ordine, quattro persone, due per ciascuno sciopero…

Ci troviamo in un tempo caldo, gli scioperi sono sempre più coordinati e frequenti, c’è preoccupazione e attenzione su questa sinistra che agita il Paese, acquista consenso, c’è bisogno di una strategia della tensione che depotenzi il clima, o meglio c’è bisogno, l’abbiamo visto anche a Genova, di un clima di paura…

E tutto converge su queste intenzioni, non solo le bombe ma anche le indagini che le riguardano..

-per cui ecco che il capo dell’Ufficio politico della questura, Antonio Allegra, collegherà immediatamente le bombe del 25 aprile ’69 a quelle delle Rinascente dell’agosto e dicembre del ‘68, di cui sui giornali non c’è traccia… la matrice è la medesima: anarchica, e lo stabilisce a solo 3 ore dagli attentati, compilando il primo rapporto, che sarà uguale a quello del 9 maggio; ancora prima che arrivino le perizie sugli ordini si dirà che erano uguali…

-ecco la decisione di far brillare la seconda bomba del 12 dicembre, quella che doveva esplodere presso la Banca commerciale di piazza della Scala e che invece viene fatta brillare nel cortile, ancor prima che si possano prendere impronte digitali, cercare indizi…

-ecco che il salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura verrà ripulito e ritinteggiato appena 12 ore dopo la strage, per riaprire il lunedì successivo, come se niente fosse, come se non ci fossero stati 17 morti, delle indagini da svolgere… c’è la fretta di chiudere, di dare la soluzione… d’altra parte arriva già confezionata da Roma, ci si lavora da mesi…

-ecco perché la notizia sulla borsa che conteneva la seconda bomba e che viene riconosciuta da una commessa padovana che dice di averne vendute 4, non viene messa a conoscenza dei magistrati e perché, nonostante la testimonianza del tassista Cornelio Rolandi descriva un uomo tanto diverso da quello che gli viene mostrato in quell’unica foto di riconoscimento, Valpreda, è Valpreda l’uomo che sale con la borsa della strage… la storia della borsa serve, è parte del canovaccio della finzione scritta per incastrare Valpreda, secondo quanto emerge dall’archivio Russomanno sulle bombe romane, in una brandello di borsa sarebbe stato ritrovato anche un pezzetto di vetro colorato che incastrerebbe Valpreda che costruisce lampade liberty per l’anarchica Vincileoni, anche lei inquisita con il marito, nel complotto per incastrare Feltrinelli…

Man mano che si leggono le carte e i libri che raccontano processi, istruttorie, udienze in cui vengono smontati o ritenuti inattendibili testimonianze, indizi, prove, cresce l’indignazione. E allora è proprio questa indignazione che occorre tener viva, coltivare e suscitare ancora oggi, in questo tempo che dimentica in fretta, non più abituato alla memoria.

Coltivare l’indignare ed esercitarla soprattutto tra le persone più giovani, dobbiamo essere esempio che tramanda il dovere di essere là, dove è giusto stare… e dove noi, stiamo da sempre!

 


Mentre il Governo Draghi tutela solo i più ricchi, Sinistra Italiana ha lanciato una proposta di giustizia sociale a beneficio di lavoratori e lavoratrici.

Firma online con un semplice click qui 

Commenti